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Il dramma invisibile della disoccupazione dei singoli

La disoccupazione dei singoli è un fenomeno drammatico, tanto diffuso quanto oscuro e difficile da percepire.

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Qualche giorno fa il giornalista Paolo Morelli ha pubblicato un post su Facebook che tra le altre cose recitava così: “Ma i diritti di una massa di lavoratori che perde il lavoro (o che comunque imbocca un percorso di rischio professionale) valgono più di quelli dei tantissimi singoli che soffrono dello stesso disagio?” Già, ai “singoli” chi ci pensa? “Centocinquanta, duecento, quattrocento persone in blocco che piombano nella nera difficoltà, essendo molte, attirano l’attenzione delle istituzioni e dei media – continua il post del giornalista – e sono perciò affiancate nella lotta per la propria sopravvivenza lavorativa: va benissimo. Invece i singoli? Loro devono morire di stenti sotto i ponti?”

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Ovviamente no, ma ragioniamoci su un attimo: si è sempre di fretta, ci sono decine di cose da fare in ogni momento, è già difficile trovare il tempo di leggere un articolo sull’entrata in vigore del Jobs Act, che riguarda potenzialmente tutti, figuriamoci uno con un titolo come “Chiude carpenteria di provincia, operaio resta a casa”. Non è mancanza di rispetto per quell’operaio, è pura mancanza di tempo. E probabilmente anche abitudine alla crisi. Inoltre, qualche addetto ai lavori bollerebbe tali vicende come “non-notizie”, perché di casi come quello del nostro ipotetico operaio ce ne sono a migliaia, decine, centinaia di migliaia in tutta Italia. Appunto, è un “affare” che non fa notizia. Infatti difficilmente sui giornali e nei tg si troveranno mai articoli o servizi di questo tipo.

Se si parla delle vicende di Fiat o Electrolux (con le dovute differenze) e via dicendo, allora (giustamente) lo spazio per scrivere o parlarne c’è e c’è magari anche il tempo per leggere o ascoltare. Invece il dramma di quell’operaio, che può essere anche un impiegato, un manager, non lo vive praticamente nessuno se non lui ed i suoi congiunti. Sempre un dramma rimane, però. Abbiamo citato l’operaio a puro titolo di esempio, ma può capitare al giovane di belle speranze come alla madre separata con due figli a carico, come al quasi sessantenne a cui mancano pochi anni per andare in pensione. E come ad ogni altra categoria socio-lavorativa esistente, professionisti e freelance compresi.

Un’impossibile copertura mediatica

La mancata attenzione dei media al fenomeno della disoccupazione dei singoli  genera una scarsa conoscenza del problema e quindi una minore attenzione, che a sua volta si traduce in assenza di aiuti, istituzionali e non. Se il problema non si conosce, non lo si può affrontare, o meglio non si sa nemmeno che esiste. C’è da dire però anche questo, e non è certo un particolare: come potrebbe mai fare un qualsiasi giornale o un qualunque Tg, a riportare ogni singolo caso di caduta in disoccupazione? Ragionando un po’ per assurdo, ci vorrebbero centinaia e centinaia di pagine ogni giorno su tutti i quotidiani e decine di minuti in tutte le tv. Insomma, la copertura mediatica del dramma, di quel dramma, è materialmente impossibile. Impossibile è anche “categorizzare” il problema stesso. Un individuo resta disoccupato in una provincia del Nord, altri tre in un’altra provincia del Centro e altri due in una terza provincia del Sud. Numeri e luoghi variano continuamente. Se è vero che statisticamente la notizia di fatto non esiste perché non univocamente identificabile, è altrettanto vero che ogni singolo caso sarebbe una notizia da riportare. Appunto, centinaia di migliaia di “piccole” notizie.

Disoccupazione dei singoli: l’eterna guerra degli invisibili

“Piccole” per modo di dire. Quel padre di famiglia, che fino al giorno prima portava a casa l’unico stipendio, il giorno dopo tornerà a casa e dovrà spiegare a moglie e figli di non avere più un lavoro e quindi un sostentamento. “Spiegare”, quasi come fosse colpa sua. Ed invece è una vittima. La stessa cosa, avverrà per la madre separata con figli a carico, che magari lavora(va) part-time, dividendosi tra mille attività quotidiane per tirare a campare. Una volta perso il lavoro inizia una vera e propria guerra, psicologicamente distruttiva ed estenuante anche fisicamente. Non è possibile prevedere né se né, in caso, quando finirà. Per giunta si è soli; non ci sono altri 200 o 2000 lavoratori nella stessa situazione con i quali condividere ansie e paure. O meglio, ci sono, ma non si sa dove, comunque e sempre ad una certa distanza e con vicende sicuramente differenti e quindi non totalmente confrontabili con la propria. E’ una guerra, dicevamo, che solo chi l’ha vissuta può comprendere a pieno. Non sapere se spendere quei due-tre-cinque euro per andare a fare un colloquio dall’altra parte della città, un colloquio per il quale si è stati chiamati dopo aver risposto ad un annuncio online del quale non si era troppo convinti. Un colloquio che, anche ammettendo che l’annuncio in questione sia perfettamente corrispondente al vero, non lascia comunque troppe speranze, perché “io alcune cose che chiedono non ce le ho” e comunque la concorrenza è sterminata: “chissà in quanti cavolo si presentano”.

Non sapere, allo stesso modo, se quando si risponde agli annunci sia meglio puntare sulla quantità o sulla qualità. Ovvero: “Che diavolo faccio? Rispondo a tutti quelli che trovo o è meglio rispondere a pochi ma bene?”. La seconda è quella giusta, ma una ricerca che non termina porta ad esplorare tutte le strade, anche quelle più improbabili, perché “non si sa mai”. L’impossibilità di confrontarsi e di condividere la propria storia con altri individui nella stessa situazione rende ancora più aleatoria e difficoltosa la decisione.

Se a questi, che sono solo due dei mille e più esempi possibili, si aggiunge che quando si cerca un lavoro, soprattutto dopo averlo perso, non si ha mai o quasi la lucidità necessaria a perseguire l’obiettivo con la freddezza necessaria, ecco che si è portati a commettere errori che non fanno altro che allungare nel tempo la guerra. Errori anche stupidi, ma che non per questo sono sempre evitabili. Fare le cose giuste quando si ha difficoltà a comprare i libri di scuola al proprio figlio, o anche, più semplicemente, quando non ci si può permettere di soddisfare un qualsiasi minimo sfizio, giusto per alleggerire la pressione mentale, non è certo facile e sbagliare non può essere criticabile. Ci si può correggere, ma non ci si deve sentire dei falliti, non lo si è. E’una prova, quella della ricerca di un lavoro dopo averlo perso, che metterebbe in seria difficoltà anche il più tenace degli esseri umani. Va comunque affrontata e se possibile superata, ma chi si abbatte non può e non deve essere additato come “debole”, perché non lo è. E’ la guerra che è durissima. Vero è che abbattersi può solo peggiorare la situazione, in quanto riduce le prestazioni personali, ma chi si scoraggia non lo fa certo volontariamente.

Ogni singolo caso di caduta in disoccupazione, se conosciuto e diffuso, racconterebbe quasi sempre una storia tanto tragica quanto interessante ed istruttiva, pur non essendoci di mezzo vertenze sindacali di massa, interventi istituzionali in extremis, contrattazioni collettive e così via.

Una soluzione, non solo al fenomeno della disoccupazione dei singoli  forse ci sarebbe ed è già in vigore in quasi tutti i Paesi d’Europa, dove in un modo dove in un altro. Il “benedetto” reddito minimo. Basterebbe semplicemente mettere in piedi un sistema per il quale sia lo Stato (o chi per lui, Regioni, Province, Comuni) a, letteralmente, chiamare l’individuo in stato di disoccupazione per proporgli un lavoro. Tale individuo, compatibilmente con le sue possibilità fisiche e culturali, dovrebbe non poter rifiutare la proposta (che appunto andrebbe “mirata” ad hoc), pena la perdita del sostengo economico istituzionale. In questo modo, che qui abbiamo solo accennato, esisterebbe contemporaneamente sia un controllo della bontà delle intenzioni di chi è rimasto disoccupato di tornare a lavorare da parte dell’ente erogatore del sussidio (lo Stato), sia la possibilità da parte di chi ha perso il lavoro di rientrare nel mercato dalla porta principale, senza essere né sfruttato, né sottopagato da nessuno.

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