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Introversi ed estroversi: chi lavora meglio?

Sgombriamo il campo da false credenze: chi comunica meglio e sa stare con gli altri non è necessariamente destinato ad avere più successo

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Prendete un bambino socievole, che si circonda di amichetti e interagisce tranquillamente con gli adulti. E mettetelo a paragone con uno più silenzioso, che tende a rimanere in disparte e ad osservare. In 9 casi su 10, i genitori del secondo bambino andranno in panico e si convinceranno che qualcosa, nel comportamento di loro figlio, non va. Ma è davvero così? Si tratta semplicemente di tratti caratteriali differenti: il primo bambino è un membro onorario del club degli estroversi, il secondo appartiene invece al gruppo degli introversi. Tratti che, salvo interventi particolari, manterranno fermi anche da adulti quando si troveranno ad affrontare situazioni sempre più complesse. Analizzare a fondo le proprie caratteristiche ed imparare a sfruttarle al meglio è questione da non sottovalutare. Soprattutto al lavoro.

Qual è il modello vincente?

In un mondo che sembra premiare solo chi si espone di più, la vita degli introversi può essere difficile. Il modello vincente propiziato, da molti anni, è quello del comunicatore carismatico, che sa sedurre con le parole e lo sguardo e sa cavarsela in qualsiasi situazione. Senza sminuire le doti degli estroversi, che meritano anzi di essere riconosciute e valorizzate, occorre però sgombrare il campo da false credenze. Che tendono a svalutare la qualità degli introversi e a considerarli dei “musoni” incapaci di relazionarsi con gli altri. Non è assolutamente così: l’introverso non è necessariamente un timido. Ciò che lo distingue fortemente dall’estroverso è che, molto spesso, preferisce la solitudine alla compagnia. Niente di più e niente di meno.

Introversi ed estroversi al lavoro

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Ma cosa succede quando un introverso si trova a dividere la stanza dell’ufficio con un estroverso? Chi è destinato ad avere più successo? Chi viene maggiormente gratificato dal capo e apprezzato dai colleghi? Le risposte potrebbero sembrare ovvie, ma di fatto non lo sono. Come già detto, non esiste un tratto migliore dell’altro: essere estroversi non è, di per sé, una fortuna ed essere introversi non è certamente una disgrazia. Cerchiamo di essere più chiari. Dobbiamo partire dall’assunto che un estroverso è, di base, una persona che comunica molto a sta bene con gli altri, mentre un introverso è un individuo che comunica poco e preferisce stare da solo. Secondo l’autrice statunitense Susan Cain – che ha scritto un libro intitolato: “Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare” – l’abilità di un bravo capo sta anche nella capacità di distribuire bene i compiti. Secondo il suo ragionamento, gli estroversi eccellerebbero nell’organizzazione di riunioni, di eventi, feste aziendali e nella promozione; mentre gli introversi sarebbero fisiologicamente portati a risolvere problemi complessi e a pianificare strategie. Dei primi, andrebbero valorizzate le innate capacità comunicative e relazionali; dei secondi, quelle analitiche e decisionali.

A ciascuno il suo capo

Nell’ambito del lavoro, insomma, chi comunica e interagisce in maniera più fluida non sempre ha la meglio su chi si mostra più chiuso e riservato. Neanche con i colleghi. Se è vero, infatti, che la spontaneità e la comunicatività spianano, di norma, la strada al successo sociale; è altrettanto vero che gli introversi tendono a considerare gli estroversi un po’ troppo rumorosi e non sempre gradiscono intrattenersi con loro. Cosa vuol dire? Che l’incontro tra un collega estroverso e uno introverso alla macchinetta del caffè potrebbe indisporre il secondo e invogliarlo a tornare, il prima possibile, alla sua scrivania. E c’è di più: chi pensa che alla guida di un’azienda possa starci solo un estroverso deve ricredersi. Disporre di ottime capacità comunicative, essere un grande motivatore, assumersi la responsabilità di scelte rischiose sono prerogative importantissime. Ma secondo alcuni studi, anche i capi estroversi avrebbero i loro “punti deboli”. Uno tra tutti, quello di prediligere la collaborazione di dipendenti passivi e remissivi, che dicono sempre (o quasi) di sì.

Di contro, i capi introversi (che, contrariamente a quanto si possa pensare, esistono eccome) concepiscono in maniera diversa la loro leadership. Sono più cauti ed analitici e propensi ad ascoltare il parere degli altri. Riflettono molto, dosano le parole e si circondano solitamente di persone con un buon grado di autonomia. Non si tratta di stabilire quale delle due tipologie sia la migliore; l’ambiente di lavoro, come più volte osservato, è un microcosmo di relazioni e dinamiche delicate che possono evolversi in maniera imprevedibile. L’ipotetica gara tra lavoratori estroversi ed introversi è destinata a rimanere aperta. E a non decretare alcun vincitore. Non esiste il capo o il dipendente perfetto: per lavorare in maniera proficua, occorre conoscere bene i tratti distintivi della propria personalità. E imparare a sfruttarli al meglio.

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