L’OSS è quella fondamentale figura che più delle altre resta a stretto contatto, anche fisico, con il malato di Alzheimer. Un contatto che presuppone, inutile negarlo, anche dei rischi. Per evitarli o comunque ridurli al minimo, vengono messe in atto iniziative e procedure decisamente complesse, sia prima che durante lo svolgimento dell’attività. Nell’analizzare la figura dell’OSS operante in un reparto Alzheimer, ci siamo avvalsi della collaborazione di Antonella Tundo, reinventatasi operatrice socio-sanitaria dopo una lunga esperienza in fabbrica ed attualmente impiegata presso il Ferb di Gazzaniga (Bg). Per lei, lavorare coi malati di Alzheimer, è una vera e propria missione, ecco cosa ci ha detto.
Partiamo dalla formazione: come OSS siete formati in modo particolare?
Ci sono dei centri che formano gli OSS. Vengono fornite (e apprese) nozioni molto importanti: psicologia, medicina, infermieristica soprattutto, perché aiutiamo molto gli infermieri, anche se ovviamente non lo siamo. La scuola forma per le varie demenze, e ci sono lezioni dedicate solo all’Alzheimer perché è una malattia molto particolare. Vengono spiegati i vari aspetti: come sorge la malattia, come evolve… Poi ci sono i vari tirocini, perché non s’inizia a lavorare subito. I primi nelle case di riposo e poi nei vari reparti, ad esempio quello per i malati di Alzheimer.
Questo è un centro d’eccellenza, come ci si entra?
Normalmente: ho portato il curriculum, mi hanno fatto il colloquio e poi mi hanno presa come OSS.
Ok, ma lei ha scelto di lavorare in un reparto come questo? E, se sì, perché?
Si, l’ho scelto io, perché lavoravo in una casa di riposo e durante il percorso che ho fatto, partendo dalla scuola, ho visto la particolarità di questi pazienti. E ho scelto di dedicarmi a loro ed iniziare questo nuovo cammino. E’ stata una scelta personale. L’anziano ti offre tantissimo ma l’Alzheimer fa evolvere anche te, ti fa imparare, ti fa crescere, perché poi nessun paziente è uguale ad un altro. La vecchiaia si sa com’è, ma il malato di Alzheimer è diverso, tu devi trovare la strategia giusta sia per poter convivere con lui, sia per fare che partecipi alle tue attività. Anche verso se stessi è un impegno particolare.
Ecco, parliamo di questo “impegno particolare”: cosa fa di diverso un OSS che lavora in un reparto Alzheimer rispetto ad un collega impiegato in un altro contesto?
Per prima cosa un OSS che lavora in un reparto Alzheimer deve avere molta, molta pazienza, molta, molta calma. Quando uno fa formazione e va in questi posti capisce se può fare questo lavoro o no. Certamente non è per tutti, infatti tanti si tirano indietro dopo aver visto la particolarità della malattia, perché bisogna considerare, ad esempio, che l’Alzheimer può dare origine anche ad aggressività. Però, non bisogna avere paura, perché loro (i pazienti, Nda) se ne accorgono, bisogna cercare i modi giusti per avvicinarsi. Ad esempio non bisogna toccarli subito e cercare di parlare con loro usando un determinato tono di voce. Questo è molto importante: se il tuo tono è calmo, anche il paziente riesce ad essere calmo e quindi lo si può gestire meglio. E va tutto a vantaggio suo.
L’OSS è la figura che è più a contatto fisico con il malato, che rischi ci sono? Capita di subire dei danni fisici?
Si capita, è capitato. Se trovi un uomo molto possente, che magari ha fatto il muratore, diventa difficile. Infatti è molto importante “la consegna”, ciò che ci viene detto dai familiari. Sapere che tipo di aggressività ha il paziente, se verbale o fisica, o entrambe. Quando sai che l’aggressività è di tipo fisico allora si affronta la persona con cautela, magari a volte si agisce in più operatori contemporaneamente. Anche recentemente abbiamo avuto dei casi in cui eravamo in tre. Ad un certo punto ti devi anche un po’ proteggere. Tu ti avvicini, ma nello stesso momento sei distante. Perché possono arrivare dei colpi improvvisi. E’ una cosa di questo lavoro.
Il fatto di stare a contatto molte ore al giorno con pazienti di questo tipo è indubbiamente stressante, capita mai di “sbottare”?
Allora, lo stress c’è, è ovvio, però se fai il lavoro con passione lo metti da parte. Poi arrivi ad un certo punto che ti rendi conto che è troppo e allora devi staccare un attimo, per forza. Giunti a quel limite ci si rende conto che bisogna stare a casa a riposo, in ferie. In ogni caso a me non è mai capitato di sbottare, almeno per ora. Spero non mi capiti mai.
La resistenza morale che necessariamente dovete possedere, a parte essere innata, vi viene anche insegnata? Non so attraverso corsi o iniziative simili?
Certo, ci sono corsi di aggiornamento, ci sono incontri con gli psicologi, con i medici del reparto. Però, secondo me è una cosa che hai. Nel senso, con i corsi ti fanno anche riflettere: ad esempio, se inizio la giornata sorridente, senza lamentarmi etc.. , anche il paziente mi vede così e anche la sua giornata è migliore. Con i corsi ci aiutano costantemente a migliorare questo atteggiamento, però se tu sei una musona sul posto di lavoro i corsi non possono risolverti questo problema. Devi avere tanto rispetto per questi pazienti e ricordarti che quello che fanno non lo fanno contro di te. Purtroppo, hanno un tipo di patologia che li porta a fare quello. Devi partire dal presupposto che loro non fanno niente contro di te. In ogni caso, quel tipo di atteggiamento positivo è proprio un qualcosa che bisogna possedere. Poi magari capita anche la giornata storta, ma è un altro discorso, siamo umani e ci sta.
I malati di Alzheimer a volte sono come dei bambini. Capita di affezionarsi? Magari maggiormente ad uno e meno ad un altro? E se sì, come viene gestita questa cosa?
Allora, di solito ci si affeziona a tutti, perché comunque vanno via, restano per un tempo limitato da noi (1-2 mesi, Nda). Il fatto di affezionarsi maggiormente ad uno e meno ad un altro: il problema è che uno ha più bisogno dell’altro. E magari stai ore e ore con una paziente perché ha più bisogno. Non so, nella stanza sensoriale ad esempio. Quel tempo che passi con lei piuttosto che con un altro paziente chiaramente incide, però non è vero che ci si affeziona più ad una persona rispetto ad un’altra. Ci sono pazienti che sono più autonomi, quindi magari nemmeno ti cercano, però tu vai lo stesso a dargli conforto, un abbraccio, una carezza.
Con questi ultimi non s’insiste di più perché la prendono peggio?
Si esatto, si sentono trattati troppo da bambini, chi invece ti cerca è perché vuole essere trattato da bambino, vuole l’affetto proprio.
Difficoltà e soddisfazioni maggiori?
Io difficoltà non ne trovo, le giuro, mi trovo benissimo, e poi io voglio imparare, crescere, per me è una conoscenza ogni giorno. Soddisfazioni tante, quando vengono ad abbracciarti, c’è la soddisfazione di aver lasciato qualcosa di buono a loro. Tu lavori per loro, sei lì presente per loro, è la più bella soddisfazione. Anche ad esempio quando fai l’igiene, sono lì che ti aspettano. Ed è un tipo di paziente che non può mentire.
Consiglierebbe questo lavoro?
Lo consiglio, però avverto anche, se non è il tuo non farlo. Lo capisci. Se non va, non lo fare, è inutile entrare in una cosa del genere e poi… non so, basta una parola per maltrattare un paziente, non è giusto. Perché loro non vogliono questo. Vogliono comprensione, rispetto, affetto. Lo consiglio, lo dico anche ai miei figli, di studiare, di fare infermieristica, però poi se a loro non piace non posso insistere. Anche io quando ho fatto la scuola mi sono trovata a scegliere: mi piace o non mi piace? Non potevo sapere, perché io vengo dalla fabbrica. Entrare in una realtà diversa non è facile, però mi è piaciuto subito, quindi lo capisci se ti piace o meno.
Questo aspetto è interessante, lei lavorava in fabbrica prima? Cosa faceva?
Io ho lavorato in fabbrica 8 anni, come operaia tessitrice. Poi c’è stato un ridimensionamento di personale. La Regione (Lombardia, Nda) in quegli anni dava l’opportunità di fare questi corsi. Ho iniziato a fare questo percorso, però non con l’aspettativa di finire: io lo faccio mi sono detta, vedo come va, altrimenti riprendo da dove sono partita.
Quindi ha fatto questo corso, e?
Ne ho fatti due, il primo l’ha pagato la Regione, il secondo l’ho pagato io, ma l’avrei fatto lo stesso. E’ stata una grande opportunità. Io ringrazio sempre perché in fabbrica sei chiusa tra quattro mura, sei sempre lì.
E’ più bello questo lavoro insomma…
Sì, certamente, dà delle soddisfazioni maggiori, c’è il contatto con le persone. Anche con i familiari, non solo con i pazienti. Anche dare un piccolo conforto al familiare, un sorriso, una pacca sulla spalla, anche quella è una soddisfazione.
E’ stato comunque un totale cambio di prospettiva, come l’ha gestito psicologicamente?
Io ho affrontato tutto benissimo. Ho anche famiglia, due figli (che erano più piccoli). Mio marito mi ha dato molto sostegno. Andavo via alla mattina e tornavo alla sera, ma lui mi ha dato sempre sostegno, mi diceva: “se questo è il tuo percorso fallo, non lasciarlo perdere”. Ho cercato anche aiuto dai miei, mia madre mi ha accudito un po’ i bambini e io ho finito il percorso. Quando ho visto che veramente a me interessava ho fatto molti sacrifici. Abbandonare la famiglia per tanto tempo non è facile, soprattutto quando hai dei figli che vanno alla scuola materna o elementare. E per giunta ancora non sapevo bene a cosa stavo andando incontro, però ho detto: sono due anni di sacrificio e li faccio. Non è facile eh, per una che già ha famiglia non è per niente facile.
Ma è difficile anche il cambio di prospettiva mentale?
Sì, io all’inizio quando ho ricominciato a studiare mi sentivo confusa, mi dicevo: io non capisco niente. Perché non ero più allenata, non essendolo, il cervello ti rimbomba, poi invece mi sono impegnata, ho studiato tantissimo (entra nella stanza dell’intervista la caposala Cosetta Sangiovanni, Nda) e ha dato buoni risultati, può chiederlo anche alla mia caposala (che conferma: “ottimi risultati” Nda).
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